“Mio padre” si può dire in tanti modi, e fa capire tante cose.
Chi come me nella vita fa altro dal padre, raramente, privatamente,
quasi sottovoce, e con pudore, dice “mio padre”.

Ma in un’impresa artigiana, da come il figlio dice “mio padre”,
a testa alta, con voce forte, capisci il senso di un legame stretto,
territoriale, generazionale, basato sul lavoro.

“Lavoro” è anche la prima risposta che mi rifila l’operaio/artigiano
esperto (ma d’aspetto giovanile) alla domanda: “Lei cosa fa?”
“E da quanto lavora?” “Qui da 33 anni, ma lavoravo già prima”

Un altro, aria da Clint Eastwood: “Ho iniziato a 13 anni da apprendista,
poi sono arrivato all’età della pensione da dipendente,
e adesso da 13 anni lavoro come artigiano in società”.

Poi un giovane vichingo, che dopo avermi spiegato cosa fa
(progettazione su misura, disegno tecnico, autocad, software)
mi guarda in faccia e mi rivela il segreto, il vero punto di forza:
“mio padre, tutte le idee vengono da lui”.

In quel “mio padre” c’è la coscienza di un valore da tramandare,
di una storia da continuare: “Il falegname era quello che con un pezzo di legno
faceva qualsiasi cosa”.

Ogni artigiano in fondo pensa la stessa cosa, anche un fotografo:
con una macchina fotografica puoi fare qualsiasi cosa,
e mi sono venute in mente le mie prime foto, 30 e plus anni fa,
in gita scolastica, classe 3C, con una vecchia, preziosa Voigtlander,
la prima macchina che ho usato, e con grande attenzione:
me l’aveva affidata mio padre.